11. Non ho parole
di Francesca Bellei
[Solo andata nasce dall’idea di dare voce all’esperienza di una generazione, quella dei giovani italiani in fuga. Non è un fenomeno nuovo: l’Italia è terra di migranti da sempre. Eppure, oggi, si può usare con la stessa leggerezza questa parola? Si può parlare di una nuova forma di migrazione? Ci chiediamo chi siano questi nuovi migranti, qual è la loro classe sociale, da dove vengono, dove vanno. Crediamo che problematizzare questo fenomeno, dandogli voce e spazio, possa essere un buon modo per capire il nostro presente, dove stiamo andando. Lanciamo questa rubrica anche con il desiderio di raccogliere più voci e testimonianze possibili, perché possa divenire un luogo di confronto e scambio, una narrazione collettiva.]
Questo articolo e’ la prima cosa che ho scritto in italiano da molto tempo. Alcuni mesi fa il mio Mac, primo e adoratissimo laptop, si e’ definitivamente spento, e con mia grande disperazione ne ho dovuto comprare uno nuovo, ma non mi potevo piu’ permettere un Mac (quello vecchio l’avevo preso nel 2008 pre-crisi, usando l’eredita’ di una prozia morta). Il cambiamento piu’ importante per me non e’ stato passare ad un sistema operativo diverso (il che sarebbe gia’ abbastanza traumatico), ma il dover usare una tastiera inglese per la prima volta, senza le lettere accentate, che mi costringe ad usare l’apostrofo per ‘simulare’ gli accenti. Li ho voluti lasciare cosi’ di proposito, perche’ rappresentato visivamente molto di quello che sto per dire. La maggior parte delle parole che ho appena scritto sono sottolineate in rosso; per il mio computer l’italiano e’ tutto un errore. Quando ho provato a scrivere ‘sistema operativo’ me lo ha corretto come ‘system’ e ‘operative’. So che potrei cercare le lettere accentate nei caratteri speciali, so che potrei cambiare le impostazioni di Word, cosi’ da avere l’italiano[1] come lingua di default, ma non lo faccio, perche’ tanto in italiano non scrivo mai. Non mi ricordo nemmeno piu’ quale sia l’ultimo libro che io abbia letto in italiano (mi pare Il Conformista di Moravia, a Settembre[2], ma forse era perche’ mi trovavo in Italia gia’ da tre mesi, a quel punto…)
Quando parlo in italiano con mia madre al telefono, oppure con amici su skype (pochissimi in Italia, la maggior parte sono italiani emigrati come me), o anche quando torno, per periodi di tempo sempre piu’ brevi, nel paese in cui sono nata, Zagarolo (rigorosamente RM, anche se i romani ci accusano spesso di essere ciociari, non pensando, forse, di fare un torto ai ciociari) spesso mi dimentico le parole, le costruzioni, i congiuntivi. Ogni giorno che passa dimentico qualcosa in piu’. Proprio ieri pero’ stavo leggendo un articolo sull’emigrazione italiana su Internazionale, dove l’autrice, Valentina Pigmei, menzionava un suo nonno emigrato in Venezuela. Di lui dice: “[t]ornò in Italia solo nel 1985, 32 anni dopo, malato e ormai incapace di parlare la lingua italiana. Morì l’anno successivo.” Ecco, quando leggi cose cosi’ ti viene un po’ l’ansia. Anche se credo che la probabile causa della morte del nonno (pace all’anima sua) fosse l’eta’ avanzata, l’ordine delle parole in qualche modo sembra suggerire una relazione di causalita’ tra la malattia e l’aver dimenticato la propria lingua. E nei momenti in cui mi vengono a mancare le parole, provo un tale senso di vuoto e di vergogna che non sembra cosi’ difficile immaginare un finale sul tragico; ma forse sono tendenze personali.
Mi ricordo che quando mi ero appena trasferita a Londra, quasi sei anni fa ormai, inizialmente avevo problemi a capire le persone, specialmente se parlavano in gruppo, o se non si stavano rivolgendo direttamente a me. Questo mi metteva enormemente a disagio nella maggior parte dei casi, soprattutto in situazioni sociali, ma a volte mi preservava anche dal dover interagire con l’ambiente esterno. Allora ero anche in grado di bloccare completamente qualsiasi conversazione, anche su un autobus affollato, e chiudermi in una bolla di silenzio che mi faceva sentire invisibile. So che sembra abbastanza orribile, ma chi non vorrebbe sapere come ci si sente ad essere invisibili? Inoltre, questa capacita’ di far trasformare le conversazioni altrui in rumore di sottofondo mi permetteva di concentrarmi molto meglio, perche’ era come ascoltare musica strumentale invece che canzoni – una regola che forse vale solo per coloro che, come me, non hanno mai ricevuto un’educazione musicale formale.
Col tempo e’ diventato sempre piu’ difficile ignorare le parole degli altri, anzi, dovrei dire che questi momenti di volontario isolamento erano gia’ abbastanza rari all’inizio, ma dopo poco ho smesso sia di cercarli che di provocarli: capire gli inglesi era diventato un imperativo di sopravvivenza e di integrazione. A passo graduale ma inesorabile ho conquistato tutti gli ostacoli che mi si erano posti davanti: per esempio, riuscire a leggere un libro intero senza usare il dizionario, guardare un comico in TV e capire tutte le battute, guardare i film senza sottotitoli, nemmeno in inglese; riuscire a fare io stessa una battuta in inglese – una cosa che mi sarebbe sembrata assurda solo pochi mesi prima. Mi ricordo il senso di trionfo che ho provato dopo ciascuna di queste micro-vittorie. Odiavo non essere capace di scherzare con gli altri, di non riuscire a far ridere i miei amici come ero abituata a fare in Italia; anzi, vivevo nel terrore che qualcuno ridesse non per qualcosa che io avessi detto, ma perche’ l’avevo detta male. Alcuni l’hanno fatto, dato che non tutte le ciambelle riescono col buco, e non tutti, comprensibilmente, hanno il mio stesso senso dell’umorismo, ma la maggior parte delle volte e’ andata bene. Dopo solo poche settimane le persone che incontravo non erano piu’ in grado di indovinare la mia provenienza, un fatto che mi riempiva di orgoglio, inizialmente. Era fatta, mi dicevo, li avevo fregati tutti. Nessuno era riuscito a penetrare la mia maschera e vedere cosa c’era sotto.
Ho iniziato a pensare e sognare in inglese. Dopo circa un anno anche persone madrelingua inglese, specialmente se non provenienti dal Regno Unito, ma dal Canada, o dagli Stati Uniti, per esempio, credevano che fossi inglese. Provavo un piacere speciale nel rivelare di essere italiana solo dopo aver assistito all’ormai familiare teatrino del “Ma di dove sei? Non hai per niente un accento! Il tuo inglese e’ perfetto” – come un attore che aspetta che l’altro gli dia la battuta, avevo sempre la risposta pronta, e facendo il sorrisetto furbo dicevo “Sono italiana.” “Ma noooooo, ma non si sente per niente” era per me l’unica risposta ammissibile. Allo stesso tempo, quando tornavo a casa e mi sentivo dire da un amico “Ma ti e’ venuto l’accento inglese! Nouuu!” mi incazzavo a morte. La realta’ e’ che non volevo essere un outsider in nessuno dei due casi. Volevo essere perfettamente integrata in entrambi i paesi, non tanto perche’ per me fosse importante essere riconosciuta come italiana in Italia ed ‘inglese’ in Inghilterra, ma semplicemente perche’ appartenere alla nazionalita’ o etnia dominante ti consente di essere te stesso: l’essere italiana, per coloro che sono nati in Italia e non hanno dovuto chiedere la cittadinanza, non e’ un fatto rilevante o a cui ho mai pensato a lungo, prima di trasferirmi all’estero.
In Italia non sarei mai stata caratterizzata come ‘Francesca, l’italiana’, per ovvi motivi. Avevo quindi la liberta’ di essere Francesca l’amica, Francesca la ragazza con i capelli lunghi, Francesca che va bene a scuola, Francesca che beve vino rosso, o che ne so io. In Inghilterra invece, se faccio o non faccio qualcosa, spesso e’ perche’ sono, negli occhi degli altri ‘l’italiana’: se ballo ‘troppo’, e’ perche’ gli italiani sono passionali, se sono in ritardo e’ perche’ sono italiana, se non lo sono: “ma tu allora non sei italiana!” Il motivo per cui la maggior parte delle persone fa degli sforzi enormi per integrarsi non e’ perche’ vogliano ‘diventare inglesi’, qualunque cosa quelle due parole vogliano dire, ma perche’ acquisire un certo numero di caratteristiche appartenenti al gruppo dominante in un determinato paese e’ l’unico modo per essere noi stessi, qualunque cosa quelle due parole vogliano dire.
Il momento in cui ho realizzato che non c’era solo da guadagnare in questo scambio, ma c’era anche molto da perdere, e’ stato quando ho provato a scrivere. Parlando di competenze linguistiche, ci si concentra, solitamente, sull’acquisirle – non molto spesso si sente discutere della loro perdita. Eppure io di parole ne ho perse, e tante. Quando scrivo in inglese ho sempre il timore di aver sbagliato qualcosa, ricontrollo sempre tutto due volte. All’universita’ dovevo scrivere tantissimi essays, o saggi brevi, ed ogni singola volta mi ritrovavo a piangere e a scrivere fino al mattino dopo, incapace di capire perche’ io sembravo metterci piu’ tempo dei miei amici. Uscivo dalla biblioteca con una borsa in spalla e due valigie[3] sotto gli occhi, alle nove e mezza di mattina, domandandomi cosa avessi fatto di male nella vita per meritarmi tutto cio’. Io ho sempre scritto tantissimo. Ho iniziato a tenere un diario quando avevo cinque anni (nel quale scrivevo cose del tipo “Mia mamma e’ un diamante di amore risplendente”), inventavo storie e scrivevo poesie nel tempo libero (i figli unici tendono ad averne tanto, e la maggior parte lo usano per annoiarsi). Piu’ tardi ho cominciato a partecipare a qualche concorso di scrittura, vincendone un paio. A quindici anni ho aperto un blog, che ho in seguito distrutto, presa da un attacco di odio verso la mia stupidita’ di sedicenne, anche se le persone che lo leggevano all’epoca non erano poche. Credo ci siano poche cose piu’ deleterie della rilettura di cio’ che si e’ scritto durante l’adolescenza. Credetemi. Non fatelo.
Comunque, tornando al discorso principale, il fatto che io scrivessi era una parte integrante della mia identita’, e penso che per alcune persone la mia scrittura ed io fossimo legate in maniera inscindibile. Ero Francesca, la ragazza che scrive. Qui in Inghilterra ho praticamente smesso, e quando lo faccio lo faccio in inglese – ma raramente riesco a finire un pezzo di qualunque lunghezza. Quando guardo la maledetta pagina bianca, dentro ci vedo quello che ho perso, e anche quello che non avro’ mai: per ogni parola inglese che imparo, ne dimentico una italiana – ma lo svantaggio di partenza e’ talmente grande che non potrei, anche dimenticando tutto il mio italiano, arrivare ad un livello d’inglese che mi consente di fare letteratura. Di creare, di sperimentare. Uso frasi rubate in un accento rubato, per cui devo pagare con le parole che mi hanno cresciuta, con le memorie del liceo, con i libri che ho amato e le domeniche passate a leggere il giornale, sempre lo stesso, che comprava mio papa’. Chi emigra si trasferisce, linguisticamente, in una terra di nessuno in cui ci si esprime in due lingue, ma soltanto a meta’.
[1] Tra l’altro, mi sono appena dovuta correggere dallo scrivere ‘Italiano’ con la I maiuscola, perche’ in inglese la lettera iniziale di una lingua e’ sempre maiuscola.
[2] Non mi ricordo nemmeno se i mesi si scrivono con la maiuscola oppure no…
[3] Ho appena controllato su google se si scrive valige o valigie. Non sto scherzando.